lunedì 21 aprile 2014

DAVID E L'OMINO

…molto lentamente, immersi in quel fantastico scenario, provano a proporsi quali potenziali sognatori. Si, perché questa gente non sogna da tanto tempo e forse non sa proprio più come si riesca a farlo. E’ gente triste, abbandonata dalla vera essenza della vita, opacizzata nell’anima dall’austerità di un’esistenza priva di fantasia, di speranze, di colori. Era domenica… una di quelle domeniche tristi ed insulse la cui cinerea consistenza sembrava amplificata dal rigido clima invernale parigino. David la notò da lontano quell’insegna molto discreta e la vide tra le tante perché era l’unica accesa seppur illuminata da una luce fioca. Si avviò lungo quella strada, solo, le mani in tasca, la testa bassa riparata dal cappuccio del suo paltò, il fiato fattosi fumo all’etereo contatto con quell’aria gelida. Solo il lento tonfo dei propri passi risuonava nel silenzioso contesto che David stava vivendo. Passi e pioggia divennero presto gli unici compagni del suo cammino. Giunse dinnanzi alla porta di quel negozio; era un po’ stanco David quando fece per bussare preceduto da qualcuno che gli aprì la porta. Fu grande la sua sorpresa nell’udire ciò che quella strana figura pronunciò: <<Salve amico, la stavo aspettando!>>. David osservò bene, in silenzio, quell’omino che gli stava davanti. Gli incuteva fiducia, lo capì in un solo istante e si fidò di lui, della sua voce un po’ roca, di quella barba bianca che gli donava quell’aria così saggia, del suo sguardo bonario e dei suoi occhi profondi, specchio fedele di un’anima pura. <<Prego, si accomodi pure>> gli disse l’omino e così facendo si spostò con il corpo e gli indicò con la mano la direzione da seguire. David era sempre più confuso e lo fu ancor di più quando si accorse del particolare arredamento che adornava l’interno di quella bottega. <<Solo un divano ed alcune brandine – pensò tra se – non sarà mica un dormitorio? Ma se lo fosse probabilmente non sarebbe tutto così perfettamente in ordine, pulito, tranquillo, poco vissuto>> fu la sua logica deduzione. Continuò a guardarsi intorno come per studiare ogni particolare, ogni angolo del negozio, sempre in silenzio, un imbarazzante silenzio. L’omino se ne stava in un punto seminascosto, accanto ad una scrivania d’epoca fornita di una lampada da tavolo anch’essa antica che emetteva una lucina molto discreta. Da quel punto d’osservazione guardava il suo ospite con l’aria sorniona di chi sa, di chi ha capito. Dopo aver atteso parecchi minuti aspettando qualsiasi reazione di David fu lui a rompere il ghiaccio schiarendosi la voce per farsi sentire meglio. <<Posso darle del tu?>> <<Certo>> gli rispose il giovane quasi sibilando. <<Ti sarai chiesto certamente cosa si venda in questo negozio, che merce si tratti, il perché di questo arredamento; ti sarai chiesto chi sia io stesso ma vorrei che fermassi per un solo attimo i tuoi pensieri. Questo negozio in realtà non è un negozio; qui si regalano sensazioni dimenticate, pensieri smarriti, sogni da percorrere per chi non sa più sognare. So che il tuo nome è David ma mi piacerebbe sapere anche cosa fai nella vita>>. Il giovane si sedette sul bracciolo del divano fissando il misterioso signore. <<Lavoro in una fabbrica. Faccio ciò che mai avrei voluto fare. Ho dovuto accontentarmi rinunciando ai sogni di quand’ero adolescente e da quando ho rinunciato ai miei sogni non ho più saputo sognare>>. <<Capisco. Fammi pensare un attimo>> gli disse l’ometto. Nella penombra di quella grande sala egli si mise in movimento. Percorse qualche metro in circolo riflettendo… le mani giunte dietro la schiena… il passo lento. <<Ecco! – esclamò – Ho trovato ciò che fa per te. Puoi accomodarti sul divano che hai di fronte? O preferisci distenderti su una di quelle brandine?>>. Incuriosito e smarrito il ragazzo non rispose neppure e si avviò verso il sofà: era forse meno comodo ma di certo gli parve più accogliente con la sua calda e lucida tinta color rosso vino ed i grandi cuscini che sembravano chiamarlo ammalianti. David si sedette, sistemò un paio di volte il cuscino che gli stava di sotto, reclinò il capo un po’ all’indietro, provò a socchiudere i suoi grandi occhi cerulei e, avvolto da quel felpato silenzio, piano piano si addormentò. Riaperti gli occhi si ritrovò al centro dello stadio della propria squadra di calcio del cuore, circondato da decine di migliaia di tifosi festanti, rumorosi e colorati, ammantato da quella maglia dai colori così particolari che per tanti anni aveva desiderato poter indossare, orgoglioso e grintoso, pronto a versare ogni stilla di sudore per ottenere le più insperate vittorie. L’acre profumo dell’erba umida saliva lungo i suoi sensi: era un odore che egli amava. Essere un vero calciatore era una sensazione unica, il coronamento dei sacrifici di tanti anni, il risarcimento per le fatiche di un bambino, per i dolori muscolari, per gli infortuni, per le cadute nelle pozzanghere colme di fango dei campi sterrati di periferia, per il gelido freddo affrontato in maglietta e calzoncini nelle grigie domeniche invernali e per il torrido caldo patito nei pomeriggi di agosto durante le preparazioni precampionato. Essere un calciatore significava aver vinto e poter rifarsi di quell’infanzia di stenti; poter ripagare papà e mamma per i sacrifici compiuti pur di tirarlo su bene insieme ai suoi fratelli concedendo loro quelle soddisfazioni che nella vita non avevano potuto cogliere: una casa di proprietà ed una vita serena al riparo dalle intemperie economiche. Essere un calciatore voleva dire poter regalare alla sua Annie il coronamento di ogni suo desiderio, renderla felice, vederla fiera di quel compagno così determinato da esser riuscito laddove solo pochi riescono. David scoprì la gioia; capì cosa potesse significare portare in cuore la soddisfazione della realizzazione. In un baleno si rivide in quella palestra nella quale si erano infrante le sue speranze… la sua giovane carriera. Quella partitella tra compagni di scuola David la rigiocò facendo sfoggio della propria bravura ma la portò a termine senza nessun problema: nessuna traccia di quella tremenda distorsione ai legamenti provocata dalla straordinaria aderenza tra il tartan della palestra e la sua scarpetta ginnica, nessun dolore lancinante. Pensò di aver fatto solo un brutto sogno. L’infortunio doveva essere stato solo il contenuto di un bruttissimo incubo e prova ne era il fatto che si era ritrovato lì, al centro del campo, pronto per quella partita… la partita d’esordio al cospetto di tutti i suoi cari stipati lì in tribuna, troppo piccoli rispetto alla gigantesca calca per poter essere individuati ad occhio nudo. David li immaginò in un attimo: la sua Annie con gli occhi sgranati, concentrata su ogni suo movimento, lo sguardo velato da un sottile strato di lacrime di gioia e poi papà, fiero, tronfo, il petto gonfio di orgoglio, il cuore fremente di chi sta per veder realizzato il sogno della propria infanzia… già… anche la sua. Dischiuse un solo attimo gli occhi David e quando fece per richiuderli non ricordò nulla di poco prima ma si guardò nuovamente intorno e si vide seduto dietro ad una scrivania, un vocio di sottofondo a fare da colonna sonora ai suoi pensieri. Guardò la targhetta che aveva davanti: “David Depinout – Vicecaporedattore” faceva. Il suo mondo circostante era quello ovattato e forsennato della redazione di “Le monde”. Si voltò in direzione del suo monitor e notò un pezzo lasciato a metà su un’impresa sportiva della nazionale di calcio francese. David sospirò profondamente, rassicurato dalla sua condizione e dalla certezza acquisita di essere un vero giornalista. Soltanto la notte prima aveva sognato di essere un impiegato di una fabbrica di pezzi meccanici ed era rabbrividito all’idea di dover trascorrere tutto il suo tempo a digitare degli squallidi documenti fatti da numeri, percentuali e frasi convenzionali. Era riuscito ad imporsi nel massacrante lavoro di collaboratore giornalistico free-lance fino a convincere il direttore responsabile e l’editore di quell’importantissimo quotidiano ad ingaggiarlo definitivamente. David era riuscito a superare la delusione di veder cestinati alcuni suoi “pezzi” per ragioni di spazio dopo che, tra mille difficoltà, era riuscito ad ottenere preziose informazioni o difficili interviste. Era stato costante e la costanza lo aveva premiato.  Prese la cornetta del telefono, digitò il numero di casa, all’altro capo la voce squillante di Annie gli rispose <<Oui!?>>. <<Ciao amore, io stasera tardo: ho da finire un pezzo importante. Ti amo>> <<Anch’io>> fu la risposta di Annie. David riprese a scrivere di buona lena, inspirato dalla sua serenità, dalla voglia matta di creare, di “partorire” nuove emozioni, di trasferire le proprie sensazioni a tutti coloro che avessero letto i suoi articoli. Gli parve che fossero trascorsi solo pochi attimi. Riaprì gli occhi, riconobbe l’interno del negozio dei sogni, quel singolare arredamento e, accanto a lui, l’omino rassicurante che gli stava di fianco ponendogli una mano sulla spalla, come per sostenerlo, per trasmettergli il calore del suo corpo. David sollevò il capo voltandosi fino ad incrociare il suo sguardo. <<Che significa?>> gli chiese. <<Ti ho regalato il sogno dei rimpianti. Ho voluto che tu potessi ripercorrere le tue occasioni perdute ponendo rimedio alle coincidenze negative ed agli errori commessi. Speravo potessi colmare, anche se per pochi minuti, il vuoto che ti è rimasto nell’anima per l’aver visto sfumare quelli che erano i tuoi sogni, gli obiettivi che ti hanno accompagnato fin dalla tua infanzia. Speravo di poter lenire il tuo dolore, quello che ti porti dentro da quando hai dovuto soccombere agli eventi della vita. Spero, adesso, che tu possa cogliere il reale significato di tutto ciò. Vorrei che ti rendessi conto che, a volte nel corso di una vita, si possono anche commettere degli errori ma su quelli non ci si deve abbattere bensì sfruttarli come fondamenta per realizzare una struttura ben più solida. Gli errori commessi,così come le delusioni imputabili a delle semplici casualità, è bene che divengano motivazioni per provare a riuscire su altri fronti. Piangere ancora, dopo tanti anni, per non essere riusciti a realizzare i propri sogni d’infanzia significa solo compiangersi, mostrare la propria debolezza. Vedi, David, tu sei un bravo ragazzo ma se sei qui non è per il semplice frutto di una casualità. Hai seguito un cammino, sei stato attratto da un percorso, da una luce fino a giungere qui davanti. Io ti aspettavo. Io sono te stesso e la parte di ognuno che vuole uscire allo scoperto. Io sono la saggezza e la coscienza di ogni uomo. So che oggi, uscendo da qui, tu non sarai più un ragazzo ma un uomo… un uomo che saprà costruire, vincere e perdere ma che avrà sempre in se la forza per risalire dal proprio fondo semmai nella vita dovesse capitargli di sfiorarlo. Lì c’è la porta David, vai… il mondo ti aspetta. E ricorda: per cambiare il proprio futuro non c’è un termine, ogni attimo può essere quello giusto>>. L’omino schioccò le dita e David si svegliò. Si ritrovò seduto sulla panchina di un parco: lì si era addormentato, avvolto dalla nebbia, il viso coperto da un giornale. Dinnanzi ai suoi occhi era rimasto impresso solo il lucido color vinaccio del sofà della bottega dei sogni così come il timbro roco della voce dell’omino con il cappello. Si sentiva solo un po’ più forte, David, e quel tardo pomeriggio si ricordò di non essere più un ragazzo ma un uomo… un omino dalla barba bianca e un cappellino sulla testa, forse piccolo di statura ma dalla grande, grandissima saggezza.

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